Un’esibizione di slam poetry per Amir Issaa, un workshop di poesia al Dams, un podcast sul razzismo per il Goethe. La performer bolognese fa il punto sul suo lavoro. E sulla decolonizzazione della cultura. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

È difficile trovare un filo rosso che leghi rap, poesia, femminismo e decostruzione della cultura coloniale. Quando riesci a trovarlo, però, quel filo è molto interessante: ha la voce e l’energia di Wissal Houbabi, bolognese di origine marocchina, protagonista di una serie di video e interviste che raccontano sul web le sfaccettature del suo lavoro.

C’è il manifesto rap antisessista, fatto di ritmo, movimento e parole scritte, o la presentazione dello spettacolo “La Muta” fatto insieme a Vittorio Zollo, un titolo che lega in una sola parola due immagini distanti come una donna che non ha voce e un serpente che cambia pelle. Ma anche i suoi articoli per Jacobin e l’intervista al Manifesto per commentare uno degli ultimi tragici fatti di cronaca nati “in ambiente islamico”, la scomparsa di Saman Abbas.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER GRATUITA ARABOPOLISIn questi giorni Houbabi è impegnata in un turbinio di iniziative che esprimono i vari aspetti del suo lavoro: una performance di poesia orale al Palazzo Brancaccio di Roma a margine del progetto “RapTorical” di Amir Issaa e Flavia Turpia, un workshop al DamsLab di Bologna e per finire, il 3 dicembre alle 18, al Goethe Institute di Roma, il lancio di “Riguardo (al)le parole”, una serie di podcast sull’eredità del colonialismo che fa parte di un ampio programma sulla “Trascultural Attentivness” dell’istituto di cultura tedesco. Abbiamo parlato con Houbabi durante una pausa del workshop bolognese: ha l’energia che ti aspetti da un rapper ma anche la chiarezza di un libro stampato.

Palazzo Brancaccio, il workshop di Bologna e l’appuntamento al Goethe mostrano tre aspetti diversi della sua attività. A cosa sta lavorando adesso?

«Stiamo preparando l’evento finale del workshop “Rap vs Poetry”, un format che ho inventato per mettere a confronto rap e poesia. Io nasco come grande appassionata di rap, fin da quando ero alle medie. Poi ho iniziato per caso a frequentare gli eventi di poetry slam e quindi a scrivere poesie che però si ispiravano al rap: diciamo che c’è un cortocircuito perché sono una poetessa che basa la sua cultura sul rap. Alla grande domanda se il rap è poesia - un dibattito sempre acceso soprattutto per i poeti, che non riconoscono al rap questa caratteristica - per me invece la risposta è chiara: anche perché rap è un acronimo, significa “ritmo e poesia”. Quindi ho “sporcato” il poetry slam, che è una competizione tra poeti, inventando una competizione interna tra rapper e poeti. Alla finale arrivano un rapper e un poeta o una poetessa: è una provocazione, perché per me non c’è un reale contrasto tra le due arti. Ma così coinvolgiamo il pubblico – dove alcuni vengono per la poesia, alcuni per il rap – e riusciamo a mostrare che tra le due arti non ci sono grandi differenze, o se invece ci sono è importante scoprirle. Sono stati due giorni con ragazzi delle superiori ma non solo. Io ho lavorato sulla poesia, portando però soprattutto testi rap. Amir Issaa ha lavorato con ragazzi che fanno rap, però alla luce di “RapTorical”, dove lui affronta anche la questione della poetica».

Il rap è considerato sessista, non solo per il linguaggio ma perché c’è poco spazio per donne rapper. In Italia questo è legato anche al fatto che le donne erano tradizionalmente interpreti e non autrici delle proprie canzoni, e nel rap non esiste cantante che non sia autore dei suoi testi. Come le sembra che sia la situazione in Italia?

«In effetti è un genere prettamente maschile: mi ha sorpreso infatti che a questo workshop siano venute per il rap due ragazze, una di 14 e una di 27 anni, significa che forse le cose stanno un po’ cambiando. È un genere maschile perché la prospettiva e la lente con cui affrontiamo la cultura hip-hop è quella del punto di vista maschile: ma questo non significa che non ci sia un punto di vista femminile da cui osservare. In questo momento sto cercando di lavorare attraverso una prospettiva femminile e femminista, anche se questa non è la voce principale attraverso la quale cerchiamo di capire che specie di valori e di identità ci dà questo genere musicale. Ascolto molto rap italiano ma per ragioni personali ho sempre ascoltato di più quello americano: questo perché per me il primo messaggio che mi ha attirato è stato quello sul razzismo. Io sono una persona razzializzata in un contesto bianco e non mi sono sentita rappresentata dal rapo italiano. La connotazione che ha avuto il rap qui in Italia rappresenta un altro tipo di soggettività, per questo ho tanti amici e amiche razzializzate che sono cresciute ascoltando rap, ma non rap italiano. Quanto alla prospettiva di genere, l’hip hop mi ha insegnato la cosa più importante della mia vita cioè a essere critica, a ribaltare la prospettiva verso il mondo: è stato soprattutto Tupac a crescermi con questa consapevolezza. Quando ho cominciato ad avere una coscienza critica verso il mondo, la prima cosa che mi ha colpito è stata l’intersezione tra classe e razza: mi sono riconosciuta come un soggetto oppresso in un contesto bianco, pensato per persone bianche. Ho coltivato il mio posizionamento cercando sempre di indagare più di chi fossi, ed ecco che mi mancava un altro tassello: proprio perché ero molto appassionata di rap, sono cresciuta pensando di essere nata con il genere sbagliato, pensavo che essere nata femmina fosse un difetto per interpretare al meglio questa cultura. Ma questo mi ha aiutato a fare una riflessione ulteriore».

Quale?

«Se il rap mi ha insegnato a essere critica, questo non esclude la possibilità di essere critica anche verso il rap stesso. Se lo hip hop è “love peace unity and having fun”, amore pace unità e divertimento, è evidente che una prospettiva femminista è ancora più coerente con i suoi stessi valori. Un hip hop sessista è una contraddizione in termini. Non mi convince chi dice che ci sono tante donne che fanno rap e che sono “invisibilizzate”: non è vero. Il rap in Italia è conosciuto principalmente per le voci maschili ma anche se noi tirassimo fuori tutte le donne rapper, sono solo una minoranza. E anche forzata: ammetto che tante rapper, anche con tutto l’approccio femminista che posso avere, non mi piacciono artisticamente. Però questo non significa che noi legittimiano una superiorità in quanto genere maschile a questa musica: no, problematizziamo il fatto che un uomo viene riconosciuto di più, che a lui vengono dati più stimoli, che il rap è uno spazio che un uomo attraversa con agio… Bisogna fare un ragionamento più strutturale per dire che non è un fatto “biologico”, come tante volte di dice di problemi di questo genere. Ma poi c’è un’altra questione…»

Fotografia di Luca Vernacchio

L’accusa di sessismo?

«Siccome i rapper parlano molto spesso delle donne ci sono narrazioni che richiedono di scindere l’arte dalla cultura: un rapper può essere bravissimo, può fare pezzi davvero molto belli come “Gold Digger” di West o “P.I.M.P.” di 50cent, che rimangono nella storia, che artisticamente sono molto molto riusciti ma parlano di donne in maniera stereotipizzata e sessista. E un rapper può essere artisticamente bravissimo eppure sessista. Molte femministe nere hanno scritto per esempio sul rapporto dei rapper con le madri, sulle canzoni in cui ne parlano come regine, come le uniche donne da rispettare. Angela Davis, bell hooks, Toni Morrison danno delle risposte: quelle sono le storie che i rapper non conoscono perché crescono solo con le storie del rap e della prospettiva maschile. Poi ci sono delle rapper donne americane che hanno aiutato a creare questo tipo di ragionamento e di intersezione, come Queen Latifah o Sister Souljah. In Italia invece c’è forte carenza di prospettiva femminista. Un altro problema è che le rapper carismatiche adottano un linguaggio sessista pensando che questo sia il contrario di maschilismo quando in realtà siamo sempre lì, restiamo all’interno della stessa cultura. Non c’è ancora una scena di donne con una consapevolezza tale da poter decostruire la cultura patriarcale all’interno del rap. Detto questo, bisogna fare una precisazione».

Prego.

«Io parlo solo di rap perché mi sta molto a cuore, ma non è detto che sia il genere musicale sessista per antonomasia: ognuno dovrebbe fare lo stesso lavoro per i generi musicali che segue. È un genere che nasce dalla cultura nera, che è rivoluzionario per tutta una serie di motivi soprattutto di narrazione, di spazio dal quale nasce. Ma tanta gente che dice che il genere più sessista è il rap casca in qualche modo in una banalizzazione velatamente razzista. Perché non è il primo genere che è sessista, e non è neanche l’unico oggi. Tutti sono sessisti: il rap qualche volte è più criticato anche perché tanta gente vede solo quello e non si riconosce in tutto il resto».

Foto di Leone Contini, dalla mostra "L'inarchiviabile" al Goethe Institut di Roma

Il discorso sulla decolonizzazione della cultura che farà al Goethe come si lega al suo lavoro?

«Presenterò un workshop che ho ideato dopo la manifestazione a cui ho partecipato a Voghera per la morte di Youns El Boussettaoui. È stato un caso molto pesante di “razzismo istituzionale”, perché l’assessore Adriatici è un uomo politico, rappresenta le istituzioni. Io sono connazionale di Boussettaoui, sono marocchina, e quindi capisco che tutta la comunità marocchina è stata profondamente scossa: perché veramente Boussettaoui poteva essere il fratello o lo zio di tutti noi. Gli uomini che vengono dalla comunità marocchina vivono un forte stigma: sono spacciatori, o terroristi, o ladri… Del resto in Italia nelle carceri c’è un 32 per cento di stranieri, mentre in generale gli immigrati sono meno del 10 per cento. Quindi o accettiamo il fatto che le persone straniere hanno un’indole criminale, o c’è un sistema escludente che non riconosce una serie di dinamiche. Ma questo tema non voglio affrontarlo nel workshop. Però ancora oggi ci facciamo la grande domanda se la nostra storia di migrazione la possiamo considerare una storia di successo o meno. Bisogna capire quando vieni qui quanto vieni integrato, e di conseguenza disintegrato…».

E di cosa si occuperà, invece?

«La mia si chiama “Questa non è una performance”, perché io incarno il sistema istituzionale razzista, e attraverso un insieme di esercizi che farò fare a un gruppo ristretto davanti a un pubblico più ampio cercherò di mostrare quello che c’è all’interno di un sistema istituzionale razzista, qualcosa che a prima vista agli occhi non passa. Il primo esercizio sarà un esercizio di prepotenza basato sullo sguardo. I bambini si guadano negli occhi senza ridere, noi invece cercheremo di non abbassare lo sguardo. Questa è una cosa che ci accade spesso come persone razzializzate, quella dello sguardo: abbassare lo sguardo di fronte al tuo capo e alla tua vicina di casa, sentirsi giudicati, osservati, è una cosa con cui cresciamo. La grande lezione di mio padre era: “Sempre a testa alta” Le persone che crescono in famiglie immigrate devono meditare sul camminare a testa alta, perché tutto ti ricorda che sei inferiore, sbagliato, fuori luogo, ospite eccetera».

I partecipanti dovranno fare qualcosa di particolare?

«Gli chiederò solo di sedersi su una determinata sedia, in una certa posizione: un modo di sentirsi in balia degli eventi, delle decisioni altrui. Mi sono ispirata molto alla questura. E lo dedicherò a Boussettaoui perché non dobbiamo dimenticarci che il razzismo uccide davvero, non sono solo fissazioni artistiche: decolonizzare la cultura non è una velleità chic o naif, la vita della persona razzializzata è una realtà cruda. La mia “non è una performance”, appunto, perché è la realtà».

Avrei voluto chiederle quanto le sue radici sono importanti nella sua attività ma è una domanda inutile, il legame è evidente…

«Però è stato un rapporto molto complicato, altalenante: all’inizio davo a questa mia origine tutte le colpe dei miei problemi, poi ho capito che questo era un po’ anche il gioco del sistema, la disintegrazione, che ti dice che tutto quello che “mi sporca” è da esorcizzare… Solo negli ultimi anni ho capito che invece questa è la mia grande ricchezza, una cosa assolutamente fondamentale».

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